Per migliorare il nostro sito e la tua esperienza di navigazione questo sito web utilizza i cookies (proprietari e di terze parti). Se continui la navigazione accetti di utilizzarli. Per maggiori informazioni (ad esempio su come disabilitarli) leggi la nostra Cookies Policy

 

Che cos’è quindi l’attaccamento all’avversione? 

Noi non ci accorgiamo di quale notevole spazio occupi l’avversione nella nostra vita. Pensiamo per esempio alla politica che viene continuamente alimentata più che dai contenuti da opinioni e dal pregiudizio che alimenta la negatività e quindi rappresentazioni erronee della realtà e questo determina altre inutili incomprensioni e altra sofferenza. Infatti non ci rendiamo conto che qualsiasi nostra insoddisfazione può banalmente tramutarsi in avversione, sia verso gli altri ma ancor più in maniera preoccupante verso noi stessi, non ci rendiamo conto che un’emozione negativa pesa in maniera incisiva sul nostro equilibrio emotivo e questo chiaramente determina, senza che ce ne accorgiamo altro stress: pensiamo al "Worry" e alla ruminazione ossessiva, alla preoccupazione: che producono inquietudine e insofferenza. Per questo è importante nella pratica di consapevolezza comprendere le cause che la determinano, pensate che questo controllo sulle emozioni negative è uno degli obiettivi più difficili anche per chi pratica da molto tempo la meditazione, tenere a freno l’avversione è estremamente difficile, e quindi è importante affinare la compassione, per garantire un equilibrio emotivo che è difficile da raggiungere e quando manca diventa  un fattore destabilizzante tant'è che rappresenta la causa di gran parte delle patologie che incontriamo nel lavoro clinico. Infatti gli studi condotti da Davidson e Siegel e recentemente da Leahy dimostrano che la pratica della meditazione, in particolare l’esercizio della meditazione consapevole, sortiscono effetti positivi sul SNC a livello corticale in particolare nell’emisfero prefrontale sinistro, l’area che presiede alla regolazione delle emozioni positive, come dire che c’è un aumento della produzione di endorfine. Tutto questo dovrebbe contribuire a normalizzare e a mantenere un certo equilibrio emotivo, anche se dobbiamo fare i conti con il contesto socio-economico in cui ci troviamo, con le nostre abitudini, con i rapporti affettivi e interpersonali, le precarie condizioni di vita ecc. Io  ho fatto l’esempio banale del fare la fila. Quale altra situazione suscita più facilmente irrequietezza di dover fare la fila e aspettare che la persona che è davanti a noi va a rilento quando arriva allo sportello e noi ci rendiamo conto che abbiamo fretta, siamo impazienti, abbiamo fretta di andare avanti, e questo suscita in noi insofferenza avversione che ci viene quasi spontanea e naturale. Quindi già da queste situazioni banali della nostra quotidianità ci rendiamo conto di quanto l’avversione e le emozioni negative agiscano nell’alimentare uno stato di inquietudine che preme come  fattore di mantenimento dell'ansia e dello stress.

Come sconfiggere l’avversione? Secondo la pratica dharmica l’avversione può essere affrontata coltivando la consapevolezza soprattutto nei confronti di questo attaccamento inconsapevole che abbiamo per l'avversione, cioè verso un stato d'animo negativo che noi coltiviamo inconsapevolmente è che si ripercuote negativamente su di noi come un boomerang. Cogliere questa inquietudine e questa insofferenza che è in noi, sia pur con atteggiamenti diversi e con una gamma di sentimenti e di cognizioni diverse, vuol dire accettarle con atteggiamento consapevole e non giudicante e questo ci consente di accoglierle per rimodulare. Quindi scoprire quanto l’io essenziale, il vero sé, sia infastidito da questa risonanza negativa che determina una rappresentazione distorta della realtà. La scoperta che essa si trova dentro di noi ci fa comprendere l'illusione che si tratti di un agente esterno e quanto da un’ analisi più attenta ci rendiamo conto di quanto essa  sia radicata i noi profondamente e di quanto essa sia presente e influenzi il nostro pensiero attivando gli schemi disfunzionali ad essi collegati. Quindi la prima scoperta è capire che l'avversione, che le emozioni negative, sono una reazione che abbiamo dentro di noi e che spesso lo stimolo esterno è soltanto un occasione per alimentarla. Quindi essa è pronta a manifestarsi alla prima occasione. La banalità che ho citato di fare la fila ne è un esempio abbastanza calzante: basta un disappunto, un ritardo, una contrarietà "la macchina che non parte la. mattina perché ha la batteria scarica”, il fatto che stiamo aspettando un appuntamento e la persona non arriva, l'amico che è passato e non ci ha salutato; tutta una serie di contrarietà che servono ad alimentare questo substrato di negatività questa condizione di avversione. Cosa possiamo fare per evitare il verificarsi dell'avversione, secondo i principi della pratica dharmica? Cercare di coltivare innanzitutto la consapevolezza che ci porta a comprendere che gli eventi che sono occasione di una reazione avversativa altro non sono che avvenimenti di impermanenza, cioè cose che passano, ogni evento che noi incontriamo è un evento passeggero. Quando noi, invece, entriamo in un atteggiamento negativo abbiamo una percezione statica, fissa dell’evento, come qualcosa che ci impedisce di andare avanti, se noi non scarichiamo la nostra aggressività sembra che non possiamo liberarci di quella situazione. Questo spiega  il nostro attaccamento inconsapevole alle situazioni avversative. Per farvi un esempio pensiamo alla vendetta: c’è gente che vive una vita per attuare una vendetta, pensate come arriva a rovinarci l’esistenza l’attaccamento all’avversione. Nel caso della vendetta, mietiamo vittime a tal punto da rovinarci l'esistenza. Vale la pena spendere un’intera esistenza al servizio della vendetta? Riflettiamo!

Cosa possiamo fare, invece, per avere un sano amor proprio e compassione verso noi stessi e la nostra dignità, per mantenere uno stato di benessere: è quindi avere gratitudine verso noi stessi, sapere che comunque noi dobbiamo avere rispetto per i  nostri sentimenti, coltivare la nostra equanimità, e quindi le condizioni che ci garantiscono uno stato di benessere. Quali mezzi possiamo usare? Intanto nella pratica di consapevolezza iniziare dalla pratica informale che è quella quotidiana. Si può cominciare anche dalla fila per arrivare a situazioni via via più difficili. Quindi una meditazione aperta, non indirizzata all’oggetto, ma a quello che accade, alle nostre emozioni che ci arrivano dagli stati profondi della coscienza e superare una tendenza, come dicevo all’inizio, abbastanza frequente nella nostra cultura occidentale, che è quella dell’autodisistima. In un’intervista del Dalai Lama, egli si esprimeva in maniera quasi sorpresa del fatto di accorgersi che nella cultura occidentale è diffuso questo atteggiamento di autodisistima che alimenta atteggiamenti di ipercriticismo, di insoddisfazione, e perfezionismo quindi bisogna stare attenti perché può succedere di ottenere l’effetto contrario quando noi attacchiamo qualcosa che avversiamo noi stiamo attaccando in realtà noi stessi. E quindi come si afferma nei testi della tradizione dharmica, fare attenzione perché può darsi che noi stiamo cercando di affrontare qualche cosa che si può ripercuotere come un boomerang su di noi: noi stiamo attaccando noi stessi e quindi è come se cercassimo di prendere il serpente in modo sbagliato: ci può ferire, ci può fare del male.

La pratica del dharma in particolare quella della impermanenza e della compassione intesa come capacità di comprensione delle cause della sofferenza, della interdipendenza causale dagli eventi; una chiara visione di tutto ciò è comunque derivante da una pratica di meditazione, da una osservazione sottile che ci deriva dalla pratica costante della consapevolezza. Entrambi ci aiutano a sconfiggere questo attaccamento all’avversione che è la conseguenza di un condizionamento che noi non comprendiamo ma che ci deriva da un processo di identificazione. Pensiamo anche alla politica, pensiamo , come dicevamo poco fa, come una vendetta può alimentare per anni odio e rancore nei confronti di una persona e magari poi ci accorgiamo che l’odio che riversiamo su quella persona è qualche cosa che noi non accettiamo in noi stessi. L’odio a volte può nascondere di queste sorprese, noi stiamo odiando qualcosa che forse ci appartiene e che rifiutiamo. Quindi rivolgere a noi stessi con atteggiamento consapevole una domanda: ma questa emozione negativa che io provo in questo momento da che cosa deriva? Vogliamo esaminarla un attimo piuttosto che andare a cercare la spiegazione all’esterno? Cerchiamo di capire noi stessi accogliendo consapevolmente le nostre emozioni. E quindi la compassione in questo caso è rivolta a noi stessi, è la comprensione di quello che ci sta accadendo, è un controllo; stiamo parlando in fondo di self control in termini più semplici e più essenziali. Se noi dobbiamo lavorare sui nostri schemi emotivi, soprattutto quando parliamo di emozioni negative e di avversione, dobbiamo comprendere che si tratta di un’avversione che spesso si rivolge verso noi stessi come un boomerang, complicando e aumentando sensibilmente la nostra sofferenza come il dolore fisico e anche quello emotivo cerca di comunicarci qualcosa. Questa consapevolezza, questa aderenza alle nostre emozioni ci aiuta a capire che questo è un messaggio, può essere un bisogno, una necessità, che noi non riusciamo a cogliere. Quindi è importante riconoscere i nostri sentimenti almeno di fronte a noi   stessi, viverli, incontrarli, accoglierli consapevolmente in tutta la loro intensità: questo significa lavorare sull’equanimità, per il nostro equilibrio emotivo; siamo noi a gestire le emozioni, non siamo gestiti dalle emozioni. Non c’è altro modo di affrontarle se non attraversarle e uscire dall’altra parte e in questo modo noi ne siamo consapevoli; se siamo consapevoli le possiamo controllare, ma se non siamo consapevoli non le possiamo gestire e magari gli diamo anche dei significati sbagliati per sostenerle. Pensiamo ad uno schema disfunzionale che è legato a delle emozioni negative che evitiamo per non imbatterci nella sofferenza. Quando un’emozione attiva uno schema disfunzionale e quanto uno schema attiva un’emozione, lo sappiamo no? In questo senso la comprensione dell’emozione entra dalla porta principale che ci permette di arrivare a comprendere anche lo schema. Quello che si fa con l’approccio di terza generazione è un po’ invertire l’analisi della cosiddetta ristrutturazione cognitiva: non si va dal cognitivo all’emozioni ma si va dall’emozioni al cognitivo. Questo è quello che si faceva già in qualche modo già dai tempi di Ellis.La formazione degli schemi emozionali primitivi  e' in gran parte determinata dall'attaccamento o da traumi in cui il soggetto sperimenta emozioni primitive non organizzate e mal elaborate che generano risposte automatiche non consapevoli e difficilmente verbalizzabili , difatti diversamente da uno schema cognitivo quello emotivo include una componente di esperienza affettiva non verbalizzabile ma essendo legata alla relazione rimanda per una sua rimodulazione ad una dimensione pragmatica( L. Greenbergh,&Safran, 87 Siegel, 07, Laehy, 13).

Quando noi cerchiamo di ignorare le emozioni negative, che è quello che ci capita frequentemente, non facciamo altro che alimentarle. Però questo è un atteggiamento di negazione dell’ emozione, in realtà essa va avanti autonomamente sostenendosi con pensieri e comportamenti che fanno da sostegno e più' cresce e meno siamo in grado di affrontarla e la reprimiamo, essa è come una ferita, che non guarisce, va in suppurazione e non ci dà pace, non riusciamo a liberarcene. Pensiamo al trauma, quanto un evento negativo legato ad uno stato emotivo violento non viene elaborato  riesce anche a distanza di tempo a produrre danni psicopatologici gravissimi: ce ne accorgiamo quando affrontiamo la problematica legata ad uno schema di abbandono, di lutto, di vulnerabilità per una malattia subita, ecc. ecc. Queste emozioni non elaborate a distanza di tempo sono in grado di generare processi psicopatologici, anche a distanza di anni. In effetti un’emozione non elaborata, non affrontata consapevolmente, non metabolizzata sul piano cognitivo va in cancrena come una ferita tenuta nascosta e non guarisce e non ci da pace. A tale proposito Kabat Zinn cita  Chirone  il centauro guaritore della mitologia greca, considerato l'archetipo della medicina occidentale,  egli viene ferito da Ercole nella sua parte animale e da questa ferita che gli procura perenne sofferenza  sviluppa auto compassione grazie alla quale riesce ad aiutare gli altri da qui la metafora del guaritore ferito. Solo chi è in grado di accettare e comprendere le cause della propria sofferenza può' aiutare a comprendere quella degli altri . In sentesi comprendere le cause della nostra sofferenza ci aiuta a conoscete meglio noi stessi. Questo esempio che ho riportato è molto calzante, pensiamo appunto all’evento traumatico, di fatto poi tutti gli approcci finalizzati al superamento dell’evento traumatico, come l’EMDR, si focalizzano soprattutto  sull’effetto di catarsi delle emozioni. Quindi quello che dice la dottrina dharmica è esattamente vero. Ora che cosa fare? A questo punto? Io propongo di fare una meditazione aperta in cui cercheremo di cogliere gli effetti a livello fisico che produce il vissuto di un’emozione negativa e poi insieme questa esperienza di consapevolezza verrà condivisa a livello di coppia. Attraverso la meditazione dovete recuperare un evento abbastanza recente spiacevole: in questo modo andiamo a vedere qual è l’emozione negativa che viene più facilmente a galla nel momento di rievocazine  nello stato di consapevolezza.Evitare di cercare, lasciate che gli stati affiorino da sé, spontaneamente.

Allora proviamo a fare questa esperienza: connettiamoci con il corpo, ancoriamoci al respiro, sentiamo il contatto della pelle con il tessuto degli abiti che indossiamo ............poi spostiamo l’attenzione dall’esterno ascoltiamo i rumori che provengono dalla strada poi all’interno dentro questa stanza, il respiro della persona che ci siede affianco, richiamiamo una respirazione profonda; entriamo in contatto con la nostra dimensione essenziale dell’essere, manteniamo questo contatto con "l’io mio", la parte profonda del nostro essere,  proviamo a sintonizzarci con  il riecheggiare di stati emotivi interni che emergono allo stato di coscienza spontaneamente, può essere un’inquietudine, una preoccupazione, magari di un avvenimento accaduto di recente. Facciamo sì che esso emerga spontaneamente allo stato di coscienza: lo osserviamo, può darsi che all’inizio esso ci appaia sfuggente, indefinito, dobbiamo solo lasciare che esso emerga accogliamolo con  atteggiamento di accettazione consapevole; a poco a poco apparirà più definito lo sentiamo fisicamente, siamo in grado di collocarlo in una parte specifica del nostro, può darsi che essa si trovi localizzata nello stomaco (le emozioni negative spesso vanno a finire nello stomaco), può darsi invece che si trovi all’altezza del petto, la sentiamo quasi vicino al cuore; dopo un po’ siamo in grado di riferirla a qualche evento che ci è capitato. Noi siamo in grado di proiettare come su uno schermo questa immagine dell' evento, di riviverlo qui in questo momento, qui ed ora, con l’intensità emotiva che percepiamo in questo momento, ne siamo consapevoli, siamo in grado di individuare anche il pensiero che ci è venuto in quel momento. Se rimaniamo collegati al respiro, ancorati al qui ed ora, siamo in grado attraverso una microanalisi di ricostruire con sufficiente precisione una sensazione fisica, riconoscerne l’emozione, l’intensità nella sua fisicità e il collegamento con  il nostro dialogo interno con i nostri pensieri, con i nostri giudizi, con la mente giudicante. Che cosa abbiamo fatto in questo momento che abbiamo riportato alla coscienza, che ci da ancora fastidio? C’è ancora qualcosa che alimenta l’attaccamento alla nostra avversione? Vogliamo cercare di capire da che cosa ci deriva questa sofferenza? Può darsi che ci venga spontaneo allontanarcene, quasi come a volercene liberare, come se avessimo paura di affrontare la sofferenza che ora percepiamo nel nostro intimo, ma possiamo accettarla consapevolmente, quasi con gentilezza amorevole, consapevoli che quella è una parte di noi. E’ un evento impermanente, legato a un processo, a un cambiamento. Quel che ci aiuta a guardare con sufficiente distanza, senza rimanervi invischiati, la sofferenza la percepiamo, siamo in grado di accoglierla quasi sorridendo, con atteggiamento compassionevole verso noi stessi. Stiamo esaminando un evento ma ci rendiamo conto che esso è collegato a dimensioni diverse di profondità della nostra consapevolezza: una più superficiale, una più profonda e giù in fondo ecco che ritroviamo la nostra sofferenza. Contempliamo con atteggiamento consapevole ma distante questa sofferenza; lasciamo che essa sia presente, dopo un po’ che l’abbiamo osservata, identificata, che abbiamo compreso le sue ragioni, la sua chiara identità, avverrà un fatto straordinario: ci rendiamo conto che lo stato emotivo negativo piano piano tende a sciogliersi, questa sofferenza è legata solo ad una parte della nutra esperienza, non siamo noi, ma solo un nostro modo di essere. Risaliamo piano piano la coscienza, ristabiliamo il contatto con il respiro, ristabiliamo la presenza, riconnettiamoci al qui e ora, portando con noi qualcosa che abbiamo raggiunto per conoscere meglio noi stessi con atteggiamento trasparente e spontaneo. Lasciamoci alle spalle il senso di inadeguatezza, il timore di giudizio degli altri, il senso di colpa che ci opprime e ci impedisce di accettare le cose nella loro semplicità. Allora non vi sarà difficile condividere con il vostro compagno di sedia questa esperienza perché essa vi può aiutare a conoscevi meglio..............

Io vorrei ricordare a questo punto la validazione quello che diceva Thomas Bien riteneva importante nel fare questa esperienza: cerchiamo  di non dare consigli né giudizi, ma nel fare il role playng cercare di mantenersi collegati col sentire anziché fare delle considerazioni che scivolano troppo nel cognitivo. Vi mettete a coppia: ovviamente c’è una persona che racconta e l’altra che ascolta e quest’ultima dovrebbe aiutare l’altro a  riportare l’esperienza nei limiti del triangolo della consapevolezza: andare a rifocalizzarlo soprattutto  sulle sensazioni fisiche, le emozioni e i pensieri e in qualche modo vedere come tutto questo crea le nostre reazioni, perché poi oggi andremo a vedere quali sono gli schemi che ci rendono reattivi e che quindi non ci fanno agire in maniera consapevole. Al suono dei cimbali faremo poi il cambio. Chiaramente poi se non avete finito lasciatevi tranquillamente il tempo per terminare l’esercizio. Se siete vicini e vi date fastidio vi potete spostare tranquillamente. Fate il tutto nel rispetto di chi vi sta vicino!

Volevo farvi riflettere su una dimensione che forse avrete avuto modo di sentire in questa esperienza di autoconoscenza che se noi siamo disposti a esaminare con attenzione la sofferenza emotiva, allora ci accorgiamo di alcune profonde verità che ci appartengono, quindi anche le emozioni negative riusciremo a passarci dentro per capire che sono turbamenti passeggeri. Quello che invece ci costringe al mantenimento all’attaccamento alla sofferenza è il rimanere in una condizione di staticità per effetto di un processo di identificazione in uno stato di inquietudine che ci porta ad alimentare la l'attaccamento alla sofferenza. Come avete notato, quello che ci permette ad avere una sensazione di sollievo nel parlare di queste cose, della nostra esperienza, di noi stessi, e' il renderci conto della inevitabilità' del cambiamento. Si tratta di un processo, il vissuto non è legato ad una condizione di staticità: il sé è in continuo divenire, siamo noi che ce lo vogliamo rappresentare in maniera statica, rigida, ma in realtà questo continuo divenire del sé assume questa dinamicità processuale attraverso la consapevolezza che è il tema centrale della terza generazione: la Mindfulness. Ecco perché  ha una spinta rivoluzionaria notevole. 

Noi della terza onda dobbiamo mantenere questo legame con la tradizione filosofica orientale. E importante conoscere profondamente la filosofia dharmica, non può' esservi meditazione senza Dharma  e come essa può contribuire ad aiutare noi psicoterapeuti ad avere una visione più disincantata, più essenziale, più semplice, più trasparente della sofferenza.Questo è un punto di riferimento molto significativo.

Quello che io ho fatto questa mattina non è soltanto l’esperienza della Mindfulness ma c’è anche l’esperienza della clinica e quindi ho aggiunto elementi che ci permettono di entrare più in profondità sapendo che gran parte di voi non è a digiuno di questa materia avendo già fatto pratica di meditazione. Sta alla bravura del terapeuta capire quanto il soggetto è in grado di entrare in uno stato di connessione e di mantenerla. Stà alla sensibilità del terapeuta sapere dove entrare e come entrare evitando che questo possa creare reazioni di fuga o dissociative e quindi la mindfulness rappresenta un meccanismo di regolazione delle emozioni tale da mettere al riparo il soggetto da situazioni negative. Comunque i partecipanti devono essere abituati ad entrare in connessione con il corpo, all’accettazione per quello che sono. Quello che aiuta è sempre la pratica.